
Può descriverci l’attuale quadro legislativo e i progetti della Commissione europea sul contrasto al fenomeno del greenwashing?
Sono in atto almeno tre iniziative fondamentali a opera di tre diverse Direzioni Generali della Commissione europea.
La prima, quella forse più nota, è la Direttiva “Empowering consumers for the green transition” che ha un campo di applicazione piuttosto generale perché non riguarda soltanto le inserzioni pubblicitarie o i comunicati espressi in forma verbale, ma coinvolge tutte le forme di comunicazione, incluse ad esempio quelle grafiche, che possono trarre in inganno il consumatore.
Una seconda iniziativa che sta per giungere in porto a opera della DG Environment è la cosiddetta proposta di Direttiva “Green Claims”.
Ha un ambito di applicazione più preciso e ristretto, perché si applica soltanto ai cosiddetti “explicit green claims”, ovvero a quelle rivendicazioni e asserzioni che hanno in modo esplicito uno scopo commerciale.
La DG GROW, invece, si rivolge direttamente alle politiche industriali per le imprese e ha di recente normato in tema di Regolamento “Ecodesign”, ovvero come progettare i prodotti green da offrire sul mercato.
Un ruolo fondamentale per la verifica delle dichiarazioni delle aziende in tema ambientale è assegnato alle certificazioni e alle validazioni dei claim svolte dagli organismi accreditati.
Quali sono gli schemi e le norme tecniche richiamate dalle direttive?
La Direttiva 2024/825 “Empowering consumers” introduce molto chiaramente una eccezione al divieto di usare claim generici.
Se un’azienda vuole dichiarare qualcosa di generale sul proprio prodotto relativamente alle prestazioni ambientali, dicendo ad esempio “il mio prodotto è green” o “è amico dell’ambiente”, non può farlo, a meno che non possa dotarsi di una certificazione ambientale con caratteristiche molto ben specificate dalla direttiva stessa.
Come quella di essere una certificazione indipendente e, quindi, secondo l’interpretazione che va per la maggiore, sotto accreditamento e di riguardare le performance ambientali di prodotto.
Oppure, le aziende possono effettuare uno studio di Life-Cycle Assessment secondo la metodologia Product Environmental Footprint della Commissione europea.
Il secondo filone, cioè la Direttiva “Green Claims”, è ancora più ambizioso nei propri requisiti e chiede alle aziende una certificazione di parte terza dei claim che intendono utilizzare sul mercato.
Attenzione, però, che la direttiva non è ancora stata approvata e non specifica alcun metodo attraverso il quale debba avvenire questa validazione.
Quali sono i punti di forza e le criticità delle valutazioni della conformità e qual è il loro reale impatto sul miglioramento delle performance ambientali delle aziende?
La Commissione europea segna un limite, una demarcazione molto forte fra certificazioni credibili e certificazioni non accettabili.
Addirittura dice che per gli schemi che non rispondono ai requisiti di parte terza e indipendenza, che non siano basati su metodologie molto robuste scientificamente e accettati dalla comunità scientifica, non possa essere utilizzato il termine “certificazione”.
Stiamo parlando senz’altro della necessità di schemi sviluppati nell’ambito della normazione tecnica, quindi sotto l’egida ISO o, a livello nazionale, di UNI. Forme di certificazione che prevedono l’accreditamento e, quindi, l’indipendenza del soggetto che eroga la certificazione.
Con il mio gruppo di ricerca abbiamo riscontrato che le certificazioni che non possono garantire queste caratteristiche risultano meno in grado di assicurare anche l’eccellenza effettiva delle aziende che ottengono questi riconoscimenti.
Molte aziende si stanno muovendo verso modelli di economia circolare.
Ritiene che le attuali certificazioni ambientali siano adeguate a convalidare i progressi in questo ambito?
Credo che nell’ambito dell’economia circolare si siano fatti molti passi avanti. L’ISO, ad esempio, dopo un processo di consultazione molto elaborato e lungo, ha prodotto degli standard che ora configurano per le aziende il modo per misurare e attestare la capacità di poter raggiungere delle performance eccellenti in termini di economia circolare.
Mi riferisco, naturalmente e per esempio, alle norme della serie 59000, all’interno delle quali ce ne sono alcune che stanno per essere finalizzate, come la ISO 59040 sul Product Circularity Data Sheet.
Una norma molto interessante perché entra nel merito del modo in cui vengono raccolte e comunicate le informazioni, oltre che quantificate attraverso indicatori sulla circolarità del prodotto.
Credo che il percorso che ci aspetta nei prossimi anni sarà ancora più preciso, più operativo e più soddisfacente.
Il greenwashing rischia anche di mettere in ombra le aziende che investono realmente in pratiche sostenibili.
Quanto è importante per aziende e consumatori conoscere le certificazioni anche nell’ottica di migliorare la comunicazione ambientale?
Dalle nostre indagini, negli ultimi anni emerge chiaramente una tendenza sempre più forte tra i consumatori a considerare la certificazione come la presenza di un elemento fondamentale nell’influenzare le scelte d’acquisto in ambito green.
Abbiamo anche condotto delle simulazioni di atti d’acquisto reali e abbiamo visto chiaramente come la presenza di certificazioni e indicatori relativi alle performance dei prodotti, purché certificati, aumenti la propensione all’acquisto da parte dei consumatori.
È in atto, poi, una tendenza, soprattutto nelle generazioni più giovani, a reperire informazioni attraverso la lettura di codici a barre e la navigazione su web.
Questo fa sì che vi sia chiaramente la necessità di costruire un contesto di scelta molto robusto e molto ben dotato di garanzie.
Un percorso che si ottiene principalmente attraverso meccanismi di certificazione, di validazione delle informazioni e degli indicatori.
Quali tendenze caratterizzeranno le politiche ambientali delle aziende nei prossimi anni? E quale ruolo avranno l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione per migliorare l’informazione ambientale?
Il progetto TRICK mira a sviluppare soluzioni blockchain per assicurare la tracciabilità e la condivisione di informazioni ambientali così da supportare l’adozione di approcci più sostenibili e circolari in alcune filiere industriali.
In particolare, sono due le sperimentazioni, una nella filiera tessile-abbigliamento e l’altra nella filiera alimentare, dove uno dei problemi principali per le aziende è proprio quello di capire se un ingrediente che utilizzano nella propria ricetta, così come un materiale che impiegano nel proprio packaging, siano a minore impatto ambientale rispetto alle alternative presenti.
Molto spesso, questa tipologia di informazioni deve essere subito disponibile e l’unico modo di farlo è attraverso i Big Data. Ovvero attraverso la costruzione di grandi database che consentano alle aziende di scegliere tra diverse materie prime, diversi prodotti intermedi e diverse alternative tecnologiche mediante la valutazione della loro impronta ambientale. (Fonte: https://www.accredia.it/)