Nel loro studio pubblicato su Journal of Environmental Management, un team di ricercatrici del dipartimento di Economia e Statistica dell’università di Torino, guidate dalla professoressa Vera Palea, ha indagato a fondo sui ritorni economici, sugli investimenti e le valutazioni del mercato azionario per le aziende che adottano strategie circolari. L’articolo di ricerca, che trova spazio nella sezione del Journal of Environmental Management, ha un titolo inequivocabile: “Are circular economy strategies economically successful? Evidence from a longitudinal panel” ed è firmato anche dalle ricercatrici Cristina Santhia e Aline Miazza.
“L’economia circolare rappresenta una grande opportunità sotto due aspetti”, spiega a EconomiaCircolare.com la ricercatrice Miazza. “Il primo riguarda, ovviamente, gli obiettivi di mitigazione del cambiamento climatico, che sono particolarmente stringenti nell’Unione Europea. Il secondo aspetto è invece di tipo meramente economico”. E non c’è dubbio che sia così. Certo, ripensare l’intero ecosistema di filiera non è un processo semplice, né economico, ma rappresenta una grande opportunità per le aziende e può assicurare un vantaggio competitivo sui propri competitor. I benefici sono innumerevoli: dalla crescita del brand e del tasso di innovazione, alla riduzione dei rifiuti e dell’uso di risorse, attraverso la valorizzazione economica degli scarti produttivi, nonché dei costi di produzione. A lungo termine, ovviamente, c’è la possibilità di centrare gli obiettivi di sviluppo sostenibile con il contributo di ogni filiera industriale.
“Il nostro studio dimostra che le imprese che implementano strategie di economia circolare beneficiano di migliori performance economico-finanziarie. Le imprese circolari hanno una migliore redditività operativa e del capitale di rischio, un minor costo del debito e migliori valutazioni di mercato”, spiega Miazza. Eppure, nonostante questo, c’è ancora chi resiste al cambiamento. E non sono pochi. Per queste aziende, le barriere principali sono l’incertezza normativa, gli elevati investimenti e la relativa variabilità dei flussi di risorse.
L’economia circolare fa bene alle aziende
I dati del Circular Economy Report 2022 del Politecnico di Milano confermano che il numero delle aziende che ha abbracciato l’economia circolare è in crescita, anche se chi ha avviato la transizione è ancora in fase iniziale. Secondo l’indagine condotta dall’Energy&Strategy della School of Management del PoliMi, l’adozione di pratiche circolari è in grado di generare oltre 100 miliardi di euro l’anno per l’industria, da qui al 2030. Oltre ai benefici ambientali, con una stima di quasi 1,9 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica in meno.Stando al Report, sono salite al 57% le imprese che hanno adottato almeno una pratica di circolarità (dal 44% dell’anno precedente), mentre gli “irriducibili” sono scivolati al 27%. Cresce anche l’interesse della finanza sostenibile, che ha messo a disposizione prodotti e strumenti per oltre 30 miliardi di euro. “C’è stata una attenzione crescente nel tempo da parte delle imprese verso le strategie circolari”, ci conferma Cristina Santhia. “I nostri dati evidenziano differenze tra imprese non solo nel tempo ma anche nello spazio, ovvero a livello di aree geografiche. Ad esempio, l’Unione Europea risulta all’avanguardia nell’adozione di strategie circolari. Attribuiamo questo dato alle politiche sempre più stringenti in materia di riduzione delle emissioni e, nel caso specifico, anche al Piano d’Azione per l’Economia Circolare”.
È cresciuta dunque la consapevolezza e la motivazione da parte delle aziende ad abbracciare modelli produttivi circolari. E questo perché, essere circolari “conviene sotto molti aspetti”, continua Santhia. Le imprese che adottano strategie circolari “risultano avere migliori indicatori di redditività – spiega – grazie a un efficientamento dei processi e, quindi, a una riduzione di capitale impiegato. A partire dall’Accordo di Parigi, osserviamo che il miglioramento degli indicatori di redditività facilita l’accesso al mercato del credito e, quindi, determina migliori condizioni di finanziamento”.
Non solo. Adottare il paradigma circolare conviene in termini di accesso e costo del capitale. “Il miglioramento della redditività avvantaggia anche l’azionista visto che le imprese circolari hanno ROE superiori alle altre e crescenti all’aumentare della loro circolarità, a riprova di una maggiore capacità del modello di business circolare di creare valore”. Il mercato azionario, dunque, premia le imprese maggiormente virtuose.
La sostenibilità economica dell’economia circolare: lo studio
Oggi, ancor più a causa delle complicate vicende geopolitiche, siamo consci che adottare strategie circolari sia fondamentale per limitare i rischi legati alla scarsità di risorse, alla dipendenza da altri paesi e all’oscillazione dei prezzi, generati dall’attuale modello economico. Ma c’è una data che più di ogni altra ha segnato uno spartiacque nella consapevolezza e nell’atteggiamento di imprese e investitori. “Il 2015 ha rappresentato un anno di svolta per le politiche di mitigazione del cambiamento climatico, soprattutto a livello europeo”, ci spiega Aline Miazza. “Oltre all’Accordo di Parigi raggiunto al termine della COP21, nel 2015 la Commissione Europea ha adottato il primo Action Plan sull’economia circolare”.Da quel momento in poi, gli investitori hanno iniziato a penalizzare le imprese meno sostenibili sotto il profilo ambientale. Il team dell’università di Torino ha analizzato il loro comportamento. “La transizione richiede enormi investimenti, pertanto non può avvenire senza il contributo dei mercati finanziari e delle banche”, continua. “Per centrare gli ambiziosi obiettivi di contenimento dell’incremento delle temperature è necessario indirizzare il capitale privato, attraverso gli investitori istituzionali e le banche, verso investimenti green”.
Secondo la loro analisi, che si concentra su un campione globale di società quotate nel periodo 2010-2019, non c’è settore che non possa trarre beneficio da un approccio circolare che interessi ogni fase del ciclo di vita del prodotto. “Nel nostro studio abbiamo esaminato il contributo delle singole strategie di economia circolare, sia quelle di processo, sia quelle di prodotto, al miglioramento delle performance economico-finanziarie”, racconta ancora Miazza. Tra le strategie di processo rientrano, ad esempio, le iniziative di riduzione dei rifiuti, l’efficientamento nell’utilizzo delle risorse, l’utilizzo di energia rinnovabile. Dal punto di vista del prodotto sono state raccolte informazioni relative all’eco-design, allo sviluppo di programmi di riciclo e di take-back.
“Abbiamo osservato che le iniziative rivolte alla riduzione dei rifiuti e all’efficientamento nell’utilizzo dell’energia hanno avuto l’incremento maggiore. In ogni caso, abbiamo riscontrato un impatto positivo da parte di tutte le strategie e che il contributo maggiore è offerto dall’eco-design dei prodotti. Un buon motivo per insistere sulla innovazione di prodotto”.
Il contesto italiano: pregi e difetti
I risultati di questo studio possono non soltanto incoraggiare aziende e fornitori di capitali a dirigere gli investimenti verso l’implementazione di strategie circolari, ma forniscono informazioni utili per i policymakers, dimostrando che l’economia circolare rappresenta uno strumento utile per affrontare questioni ambientali, ma anche per la crescita economica.Una consapevolezza che i nostri decisori politici sembrano non aver ancora maturato a pieno. Secondo Eurostat, infatti, negli ultimi anni il tasso di circolarità del nostro Paese è in calo. Siamo in controtendenza rispetto agli altri paesi europei: nel 2021 il tasso di circolarità è sceso dal 20,4% al 18,4%. Un drastico calo, rispetto alle oscillazioni più lievi degli altri 26 Stati membri dell’Unione europea. “Forse una delle possibili cause è la mancanza di politiche territoriali e specifiche che siano mirate allo sviluppo e alla diffusione dell’economia circolare”, spiega Miazza.
Ma cosa manca al nostro Paese per far sì che l’economia circolare non resti soltanto una “buona pratica da adottare” ma diventi piuttosto un sistema consolidato, capace di integrare ogni aspetto della produzione? “Servono politiche mirate a livello territoriale in quanto il tessuto produttivo italiano è composto principalmente da imprese di piccole dimensioni, e servono politiche specifiche, in quanto ogni settore ha le proprie peculiarità”.
Per realizzare la svolta “green” è però necessario anche il capitale umano. “La transizione verso un’economia low carbon rappresenta una svolta epocale – prosegue Miazza -, richiede non solo politiche di sostegno ma anche competenze specifiche. Questa ricerca, ad esempio, fa parte di un più vasto programma interdipartimentale e interdisciplinare, il cui fine è proprio formare il capitale umano che deve contribuire a realizzare la transizione”. Un progetto che, come ci conferma la dottoressa Santhia, non esclude la possibilità di un nuovo filone di studio dedicato espressamente al contesto industriale italiano. “I risultati incoraggianti del nostro lavoro aprono filoni di ricerca molto interessanti a livello di impresa”, spiega.
Il dipartimento Cognetti de Martiis di Torino poi, è anche partner di un progetto di ricerca finanziato dal PNRR. “Si chiama GRINS, coinvolge le principali università italiane ed è finalizzato a supportare una crescita sostenibile, resiliente e inclusiva dei territori e sistemi industriali italiani. Il progetto è appena iniziato, ma il focus è proprio sul contesto italiano e l’economia circolare”, conclude Santhia. (Fonte: Antonio Carnevale, https://economiacircolare.com)